I vostri musei militari spariranno, i vostri venerati campi di battaglia saranno scavati per costruire centri commerciali e i monumenti al vostro passato glorioso saranno distrutti da forze straniere di occupazione...
Andrew Gilbert
Il senso del tempo scatena molteplici interrogativi nelle menti sensibili. Quanto può il passato influenzare il futuro? Quanto consapevolmente? Che cosa rimane davvero di quanto accaduto secoli fa, se non le testimonianze parziali e incomplete dei pochi che, a parole o con figure, cercarono di documentare il proprio presente?
L’operazione di tutela e salvataggio della memoria storica, fin dai tempi in cui nell’Europa occidentale si parlava in latino, è indicata con il termine tradere, dal duplice significato di “tramandare, trasmettere”, ma anche di “consegnare al nemico”, e quindi “tradire”. Dalla stessa radice semantica, giungono dunque oggi le “tradizioni”, ma anche i “tradimenti”. Un qualsiasi dipinto dell’artista ufficiale dell’Armata Britannica in Sudafrica, Thomas Baines, racconta fedelmente gli episodi di battaglia cui assistette come pittore di guerra, ma anche la natura del luogo e le usanze della popolazione; soltanto, però, dal punto di vista di un colonizzatore ottocentesco alla scoperta di curiosità e rarità esotiche.
L’invito degli artisti Andrew Gilbert, Jarmila Mitríková & Dávid Demjanovič e Umar Rashid (Frohawk Two Feathers), che per la prima volta espongono insieme nella colossale mostra the Fate of Empires, è quello di stravolgere, guardandoli con gli occhi di oggi, gli episodi che sono stati registrati in modo univoco dalla grande storia, attraverso la reinvenzione e la narrazione alternativa di storie dimenticate.
È proprio dall’estetica degli artisti coloniali tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento che trae ispirazione Andrew Gilbert. I titoli delle sue opere su carta si levano come grida patriottiche dagli eserciti indigeni, che si vedono per la prima volta protagonisti di eroiche vittorie: gli esiti delle battaglie di Isandlwana – che ebbe luogo il 22 gennaio 1879 in Sudafrica nel corso della guerra Anglo-Zulu – e di Adua – che si tenne il 1 marzo 1896 durante la guerra di Abissinia – sanciscono le più umilianti sconfitte riportate dagli Europei contro le popolazioni dominate. L’artista, sul filo di una pungente ironia, si fa portavoce della riabilitazione di coloro i quali sono stati considerati storicamente i più deboli, attraverso satirici ritratti di condottieri, vedute a volo d’uccello degli schieramenti militari, e riproduzioni dei manifesti propagandistici, frutto di studi dettagliati sulle fonti originali, e di una libera interpretazione che non manca di riferimenti alle politiche internazionali contemporanee.
Comune è l’intento di Umar Rashid, che rivendica la marginalità storica della cultura nera attraverso un sistema narrativo da lui creato, basato sulla storia dell’immaginario Impero “Frenglish”. Da questo neologismo, che unisce gli storici nemici Francia e Inghilterra, prende vita una serie di episodi i cui protagonisti sono persone di colore schierate contro il “gargantuesco” impero occidentale, identificabili attraverso i tatuaggi che portano sul viso e accompagnati da un vissuto personale scritto dall’artista stesso.
La leggenda ricreata dall’artista in occasione della mostra, presenta in sei opere su carta la battaglia d’amore del valoroso Guido, soprannominato “Dolomiti” per l’abilità nel combattere sulle montagne, e si svolge nelle terre asburgiche dal 1782 al 1790, dimostrando che la storia passata può essere oggi riscritta immaginando molteplici possibilità parallele rispetto ai fatti realmente avvenuti.
Mitríková & Demjanovič, che lavorano come duo, provengono invece da un paese dell’ex Unione Sovietica, in cui il controllo delle masse e della cultura, che veniva esercitato dal regime, conviveva con la religiosità, cristiana e pagana.
Si muovono nel solco della tradizione i due artisti, che padroneggiano la tecnica della pirografia su legno utilizzata dagli artigiani locali per produrre souvenir o per decorare oggetti d’uso comune. Con questa peculiare lavorazione artistica, Mitríková & Demjanovič agiscono nel rispetto delle loro radici, ma “tradiscono” al contempo i soggetti tipici rappresentati sulle tavole di legno, operando una sovrapposizione tra supporto e messaggio. Nelle loro opere, animali personificati e mostri fantastici evocati dalla mitologia del Wilder Mann (uomo selvatico), si alternano ad azioni popolari, come l’allenamento ginnico, la caccia, o il raduno sotto l’albero della cuccagna, che hanno una forte componente rituale e hanno lo scopo di tenere unita la collettività. Sono presenti in mostra anche alcune sculture in ceramica, in cui i due artisti erigono piccoli altaroli a tutela di una cultura perduta.
La reinvenzione della storia operata dagli artisti in mostra traccia il destino degli imperi e dei regimi totalitari, che inesorabilmente collassano, lasciando scoperte le ferite dei popoli. L’arma più potente diventa quindi la narrazione, reale o fittizia, che opera per restituire dignità alle storie delle persone, mescolando passato e presente in direzione del futuro.
Camilla Nacci