Addomesticare il naturale è una missione estetica ed etica che l’uomo insegue fin dall’antichità: il topos dell’Hortus Conclusus ricorre da secoli nella letteratura e nell’iconografia sacra e profana, narrando per parole e per immagini “il meraviglioso” per antonomasia. Metafora della purezza verginale, il giardino racchiuso tra le mura del palazzo (o del monastero) rappresenta il luogo della delizia, in cui ammirare in sede intima ed esclusiva la bellezza della natura plasmata dall’uomo.
Echeggiano voci femminili tra le presenze che abitano il lavoro di Margherita Paoletti. Le linee spigolose dei loro corpi educano i giardini interiori che esplodono selvaggi, ma sempre all’interno di confini ben tracciati, come quelli architettonici. Elementi decorativi artificiali si confondono con la selva rigogliosa che prende possesso delle opere, a ben guardare si tratta di soggetti conosciuti, famigliari: così la pelle diventa soffitto affrescato, pavimento mosaicato. S’affaccia da un’arcata una fanciulla che scruta l’orizzonte; ritroveremo la stessa arcata all’interno di una gigantessa inginocchiata. Da queste finestre, collocate dentro ai corpi, si può approfondire la propria ricerca interiore, la cui decifrazione viene facilitata dalla presenza di indizi simbologici di fiamminga intensità: il teschio, la clessidra, i petali sfioriti, punteggiano di vanitas il giardino abitato, ricordando quanto sia prezioso il tempo che scorre, e restituendo, in cambio, un barlume di infinito.